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Informazioni personali

Blog curato da Marco di Silvestro

lunedì 28 aprile 2008

La voce di Quintiliano


Egli dica ogni giorno qualcosa, anzi, molte cose che coloro che ascoltano ripetano poi da soli. Infatti anche se la lettura fornisce un numero di esempi sufficiente all'imitazione, tuttavia quella che si definisce "viva"voce fornisce un nutrimento più ricco: specialmente quella di un maestro che gli alunni, purché adeguatamente formati, amano e temono al tempo stesso.[...]
[Quintiliano, Institutio Oratoria, 8]

domenica 20 aprile 2008

La testa ben fatta



Questo libro è in realtà dedicato all' educazione e all'insegnamento. Questi due termini coincidono e nello stesso tempo si differenziano. L'"educazione" è una parola forte: "Messa in opera dei mezzi atti ad assicurare la formazione e lo sviluppo di un essere umano; questi mezzi stessi" (Le Robert). Il termine "formazione", con le sue connotazioni di lavorazione e di conformazione, ha il difetto di ignorare che la missione della didattica è di incoraggiare l'autodidattica, destando, suscitando, favorendo : L'autodidattica, destando, suscitando, favorendo l'autonomia dello spirito. L'"insegnamento", arte o azione di trasmettere conoscenze a un allievo in modo che egli le comprenda e le assimili, ha un senso più restrittivo perché solamente cognitivo.
A dire il vero la parola "insegnamento" non mi basta, ma la parola "educazione" comporta un troppo e una mancanza. In questo libro farò lo slalom fra i due termini, avendo in mente un insegnamento educativo.
La missione di questo insegnamento è di trasmettere non del puro sapere, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a vivere; essa è nello stesso tempo una maniera di pensare in modo aperto e libero.
Kleist ha proprio ragione: "li sapere non ci rende migliori né più felici".
Ma l'educazione può aiutare a diventare migliori e, se non più felici, ci insegna ad accettare la parte prosaica e a vivere la parte poetica delle nostre vite.
[Edgar Morin, La testa ben fatta, pp.1-3]

domenica 13 aprile 2008

Esistono ragazzi disattenti?

















[...]

Tali differenze non incidono granché sull' attenzione degli studenti che vanno bene. Costoro godono di una facoltà benedetta: cambiare pelle a proprio piacimento, al momento giusto, al posto giusto, passare dall'adolescente agitato all'allievo attento, dall'innamorato respinto al cervellone matematico, dal giocatore al secchione, dall'altrove al qui,passato al presente, dalla matematica alla letteratura... E la velocità di incarnazione a distinguere coloro che vanno bene da coloro che hanno qualche difficoltà. Questi, come viene rimproverato loro dai professori, sono spesso altrove S! liberano più faticosamente dell' ora precedente, cincischiano in un ricordo o si proiettano in un qualsiasi desiderio di altro. La loro sedia è un trampolino che li scaglia fuori dall'aula nell'istante stesso in cui vi si posano. A meno che non vi si addormentino. Se voglio sperare nella loro piena presenza, devo aiutarli a calarsi nella mia lezione. Come riuscirei? È qualcosa che si impara, soprattutto sul campo, col tempo. Una sola certezza, la presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all'intera classe e a ogni individuo in particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale, per i cinquantacinque minuti in cui durerà la mia lezione.

[Dal "Diario di scuola" di Daniel Pennac]

sabato 5 aprile 2008

Insegnare che passione! (dedicato a chi sta andando in pensione)


di GABRIELLA LAZZERINI

Gabriella Lazzerini, esperta di problemi della lingua italiana, era docente di Lettere in un istituto tecnico commerciale di Milano. Faceva parte della comunità scientifica femminile Ipazia.











Non è un titolo ironico. Mi riferisco al senso comune che si attribuisce alla parola, attestato dal dizionario Gabrielli come «forte inclinazione a fare qualcosa», che comprende, etimologicamente, anche il significato di patire (ma qual è la passione, fosse anche quella calcistica, che non dà patimenti?).

lo credo che questa passione sia piuttosto diffusa e che sia quella che in sostanza fa funzionare le scuole (ma anche gli ospedali, le fabbriche, gli uffici, i tribunali e via discorrendo). Si può essere arrivati . all'insegnamento per desiderio, per volontà, per caso o per ripiego: poco importa. Quel che conta è, come sempre, il rapporto che si instaura con una necessità che anche solo in termini di tempo occupa una bella porzione dell'esistenza. Credo anche che di questa passione si parli poco,per una sorta di pudore reticente che, non da solo, è una delle cause del poco valore che oggi socialmente si attribuisce alla scuola. Sarebbe interessante indagarne le ragioni profonde. Soggettive e sociali.Appartengo al gruppo consistente delle insegnanti che lo scorso anno non hanno presentato domanda di pensione. Mi trattiene - oltre all'interesse che per me continua ad avere questo lavoro – una speranza. Che io, insieme ad altre e ad altri, riesca a tener alto il livello di civiltà della società futura, tanto che essa giudichi intollerabile lasciar morire di inedia i suoi vecchi e le sue vecchie.

Anzi soprattutto queste ultime, viste le statistiche sulla durata media della vita delle donne. Mi sorregge innanzi tutto il fatto che ciò che vado a fare cinque mattine la settimana sia un'operazione profondamente sensata. Che ha senso e dà senso. E a questo punto si arriva a un discorso difficile, perché qui si incontrano - non dirò si oppongono – ragioni individuali ed esigenze sociali.

Insegno nel biennio di un istituto tecnico commerciale di Milano. Questo lavoro mi mette in rapporto con giovani e meno giovani che non avrei l'occasione di incontrare altrimenti. Via via che il tempo passa e l'età avanza il territorio culturale comune si restringe. Sono altri il linguaggio, i parametri di riferimento delle ragazze e dei ragazzi che ogni anno mi trovo davanti. Diversi dai miei e in ciascuna e in ciascuno filtrati da tutti gli elementi che ne costituiscono l'irripetibile soggettività: appartenenza di sesso, storia familiare, provenienza sociale e geografica, sensibilità, attitudini.

L'elenco potrebbe continuare all'infinito. Con tutti questi aspetti la trasmissione del sapere deve fare i conti. E una ricerca costante (altro che mestiere ripetitivo!) che implica attenzione, richiede continuamente aggiustamenti e correzioni di tiro, conosce successi e fallimenti, si porta dietro punti interrogativi e questioni irrisolte. Quel che andava bene l'anno precedente non è detto che funzioni l'anno dopo, e poi bisogna sempre tener d'occhio che cosa

succede nel mondo. Per regolarmi ho due punti fermi: la passione e l'ascolto. Passione vuoI dire dar retta alle proprie preferenze: di percorsi, di metodologie, di contenuti, di atteggiamenti. Ciò che ci appartiene, ci intriga, ci convince è molto più facile trasmetterlo di quello che si affronta solo per dovere. In questa prospettiva, i famosi programmi ministeriali sono un quadro di riferimento, tanto più utile quanto più sono ispirati da pratiche didattiche reali ed esperienze sul campo e non concepiti a tavolino.

Per ascolto intendo fare tante domande di cui non si conosce in anticipo la risposta, e che non hanno una risposta esatta. Ogni studente è un mondo nuovo (è il vero "nuovo" che avanza) che arriva a scuola con un proprio e personale bagaglio diesperienze, desideri, aspettative e anche pregiudizi. E un soggetto e non certo un oggetto o un vaso da riempire. Devo fargli capire, attraverso gesti concreti e non dichiarazioni di principio, che io sono genuinamente interessata a quanto ha da dirmi. Altro materiale lo ricavo da quanto hanno osservato e ascoltato le mie colleghe, dalle interazioni con madri e padri, dai giudizi di chi mi ha preceduto.

Riguardo a quest'ultimo punto, denuncio un limite che è anche mio: i vari ordini di scuola, dalla materna all'università, si parlano poco, e questo favorisce la pratica volgarmente detta dello scaricabarile, vale a dire l'attribuzione di responsabilità, per ogni difficoltà o mancanza, alla scuola
precedente.Trarre conclusioni, da tutta questa massa di informazioni, è un atto di grande responsabilità che mi riguarda in prima persona, e non c'è scheda che possa sostituire l'osservazione di ciò che in un rapporto accade continuamente. Non voglio dire che gli "spostamenti" che mette in moto un rapporto pedagogicosiano ineffabili e incomunicabili. Vorrei solo mettere in guardia chi si aspetta che le grandi difficoltà che incontriamo nel nostro lavoro e il senso di inquietudine profonda (del tutto giustificato, e non attribuibile a incapacità o mancanza personale) che prende noi insegnanti nel momento di decidere e valutare trovino una cura risolutiva nel ricorrere a strumenti di misurazione cosiddetti oggettivi.

Test, griglie e questionari li uso anch'io svariate volte nel corso dell'anno. Sono strumenti, per certe occasioni, buoni come altri, soprattutto se maneggiati con cautela: sapendo cioè che sono strumenti parzialissimi, perché attraverso di essi non si può pretendere di misurare tutto, di prevedere in anticipo tutto, di catalogare tutto. Non si tratta di reperire o di elaborare la scheda finalmente

perfetta, precisa ed esaustiva, in cui le liste di specifiche possono allungarsi all'infinito. C'è invece da considerare che siamo in presenza di una contraddizione, strutturale e non oltrepassabile: misurare ciò che evolve e si modifica (lo studente, ma anche la relazione che abbiamo con lui/

lei e di conseguenza noi) ha un residuo di soggettività ineliminabile. Questa e altre contraddizioni, bisogna sforzarsi di articolarle ma non in solitudine. Per ciò io trovo come strumento insostituibile la parola, la parola "parlata", la parola che si scambia nei contesti. D'altronde la lingua funziona proprio in questo modo: rispetto al mondo dei significati, i significanti sono sempre imperfetti, però gli esseri umani tra loro spesso comunicano e io, che la lingua la insegno, continuo a scommettere .sulle sue infinite potenzialità.

Per finire: ho molta speranza per queste nuove generazioni. che talvolta ci sembrano abitanti di un altro pianeta.

So che misurare l'efficacia della scuola nel suo contributo alla crescita dell'incivilimento degli esseri umani è un'operazione che non si fa con le statistiche. Com'è possibile, infatti, misurare quanto meno la scuola ha prodotto di disagio sociale e quanto più di benessere individuale e collettivo di sviluppo, ad esempio, di curiosità e di felicità?

Eppure mi conforta leggere i dati di una recente inchiesta del COSPES. SU10.000 interviste (giovani tra i 14 e i 19 anni), il modello preferito di insegnante è quello «ricco di fantasia e di stimoli» che batte di molte misure l'«affabile e cordiale con gli allievi» relegando all'ultimo posto
nella scala dei gradimenti il «serio,sistematico e competente». E mettendo per un momento da parte il problema costituito, nella nostra epoca, da sondaggi pilotati e statistiche bugiarde, proviamo

a leggere, prendendolo sul serio, l'arido dato. Ci dice che studentesse e studenti sono attratte e attratti da chi, anche in presenza di un sapere vecchio come il mondo, si mette in gioco per reinventarlo, che la competenza senza passione, così come l'affettività pura e semplice, gli

interessano molto meno. Il modello che i giovani hanno in mente assomiglia - anche nelle semplificazioni di un questionario - a quello che ho il!-mente io e che mi sforzo di praticare. E possibile che sia un modello che non ha niente a che vedere con le loro esperienze? È realistico

pensare che qualcuna di queste figure nella scuola che hanno frequentato non l'abbiano incontrata?